Soriano nel Cimino è una località di circa ottomila abitanti che si trova a più o meno quindici chilometri da Viterbo, presso il Monte Cimino, la cui selva, tanto fitta da apparire, agli occhi degli antichi, impenetrabile, fu descritta già da Tito Livio nell’Ab urbe condita.
Silva erat Ciminia magis tum invia atque horrenda quam nuper fuere Germanici saltus, nulli ad eam diem ne mercatorum quidem adita. Eam intrare haud fere quisquam praeter ducem ipsum audebat; aliis omnibus cladis Caudinae nondum memoria aboleverat.1
Il toponimo è di origine incerta, e il territorio ha visto nel corso dei secoli avvicendarsi numerosi governanti e molte dinastie: Longobardi, Guastapane-Pandolfo, Orsini, Borgia, Della Rovere, Caraffa, Madruzzo, Altemps, Chigi e Albani, solo per ricordare i nomi principali. A Orso Orsini, nipote di Giovanni Gaetano Orsini, meglio noto come Papa Niccolò III, si deve, a partire dal 1277, la costruzione del castello che domina il panorama di Soriano, il Castello Orsini, che fu residenza papale e nobiliare e poi pure penitenziario, per tutti “la Rocca”. Proprio “La Rocca di Soriano” è infatti il titolo che Pietro Fucci (1902 – 1976), poeta autodidatta – di professione barbiere – in lingua e in dialetto, nonché fervente antifascista, dà al suo componimento qui di seguito testualmente riprodotto, edito per la prima volta nella raccolta “Riflessi del Passato. Liriche di Pietro Fucci”, a cura della Tipografia Annesini di Vignanello, nel 1934. Nel poemetto si fa riferimento alla “vecchietta del carnaiolo” (in dialetto sorianese, “macellaio”), figura leggendaria del paese, raffigurata in una statua presso l’Arco della Bastia e rievocata anche nel corso delle celebrazioni dell’annuale Sagra delle Castagne (caratterizzata da un variopinto corteo medievale), colei che viveva dentro un seccatoro (nel vernacolo locale, la parola che indica l’essiccatoio per la carne) e che sabato 7 novembre 1489, vedendo degli strani segnali luminosi provenire dalla Rocca, dette l’allarme, consentendo ai sorianesi di scoprire, catturare, uccidere e far precipitare dalla torre più alta del castello il conte Pietro Paolo Nardini – feudatario di Vignanello, un paese confinante – che a sua volta, con l’aiuto di quattro complici, aveva ammazzato a tradimento il castellano (ossia il “gestore” della Rocca, come da decreto papale del 1441) di Soriano, lo spagnolo Didaco de Carvajal. Al “buon Didaco”, come viene di solito ricordato, la carica era stata attribuita dal cardinal Rodrigo Borgia, il futuro Papa Alessandro VI, il quale aveva ottenuto nel 1484 da Papa Innocenzo VIII, al secolo Giovanni Battista Cybo, Soriano in vicariato perpetuo. I segnali luminosi suddetti, fatti con una torcia, erano viceversa rivolti ai soldati di Nardini, che stavano accorrendo alla conquista del borgo, ma furono messi in fuga in quella che da quel momento si è chiamata “Battaglia del Fosso Buoncontro” (o “Buonincontro”, o “del Buon Incontro”). Domenica 12 dicembre 1489 il Papa, al fine di premiare il coraggio e la fedeltà della popolazione, promulgando la “Bolla d’oro”, che determinò anche una maggiore redistribuzione sul territorio della ricchezza, permise ai sorianesi di poter aggiungere la parola FIDELITAS sul proprio stemma cittadino – approvato nella sua forma attuale con Decreto Ministeriale giovedì 18 novembre 1897 e costituito da uno scudo sannitico moderno tronco cinto ai lati da due ramoscelli, a sinistra d’ulivo e a destra di quercia – che, oltre a riprodurre alcune insegne che fanno riferimento a San Nicola di Bari, santo patrono della località insieme a Sant’Eutizio di Ferento, come recita lo statuto comunale, è:
Tracciato d’azzurro e di rosso, con la fascia d’oro attraversante e scritta della parola FIDELITAS. Il primo alla mitra di teletta d’oro al naturale, il secondo al libro d’argento, aperto e caricato di tre tortelli d’azzurro, male ordinati. Lo scudo sarà sormontato da un cerchio di muro d’oro, aperto di quattro porte, sormontato da otto merli dello stesso, uniti da muricciolo d’argento.
E ora, il testo del Fucci:
Sul verde clivo, intrepida e superba,
cinta da merli e da secure mura,
la rocca di Soriano,
esercitante un fascino un po’ arcano;
guardando la pianura
con la potenza cui fa il meschin domo,
da secoli l’acerda2
missione adempie che gli affida l’uomo.
Papa Niccolò Orsini,
«cupido sì per avanzar gli orsatti»
come il Poeta dice;3
lì dentro ognor tramando oscuri fini,
visse quasi felice
fra le orgie e i vizî matti.
Pago d’ogni vil brama,
simoneggiando senza alcun ritegno,
con l’alta sua nomea,
alfin da lungi l’irrequieto chiama
dalla Sicilia il fiero agitatore4,
di vera fama degno.
Sotto mentite spoglie,
in abito da frate francescano,
Giovanni le ampie soglie
dell’ospital castello,
varca dal papa accolto
per abboccarsi e concertar con quello.
La tracotanza e l’albagia di Carlo5,
faceva sì che il pungolo dell’odio
si sprigionasse ovunque;
e intanto il tarlo
che rodere doveva il regal trono
pascevasi in un luogo punto buono.
Dopo il breve soggiorno,
trascorso nella rocca,
l’inclito sicilian fece ritorno
col cuore ansante e col sorriso in bocca
verso la patria amata;
e mentre l’agognata
mèta de «vespri» ognor s’avvicinava,
pria di veder ‘l fine
papa Niccolò terzo
le veci sue al successor lasciava.
Sotto le fosche ombre,
di un’insensata egemonia feroce,
dopo tante vicende e lotta atroce,
in quelle stanze sgombre
d’ogni letizia vera;
un fatto orrido e truce
empie la rocca d’una storia nera.
Un giorno di Novembre cui la bruma
la pelle increspa e intirizzisce le ossa,
mentre il camino fuma
dall’alto del castello;
un uomo cui l’orpello
doveva trascinarlo poi alla morte,
capitanando quattro suoi sicari
picchia alle ferree porte.
Brevi parole e un aspro cigolio
vagò per l’aere tutto lamentoso,
e il castellano pio
tutto complimentoso,
stringendo quella destra un po’ tremante
per la vigliaccheria,
disse: Si faccia avante, conte, avante!
Condotto nelle stanze
col garbo che accompagna la favella,
il conte senza tante titubanze
sedendosi parlando con sussiego;
la sua intenzione fella
nell’intimo accarezza
senza che l’alma prava
gli mostri il ben qual meta di dolcezza.
Cadea la sera e l’aere tenebroso,
che favorir dovea il funesto piano,
facea il castellan più premuroso;
e intanto che le note da lontano,
lente giungevano dell’Avemaria,
la ricca mensa il servo
con precision imbandia.
Giunto il momento che il fumante pasto
venia servito senza parsimonia,
ognun narrando un fasto
di quei tempi fatali,
diceva chiaramente
che i nobili ammazzavan troppa gente…
Era già l’ora che il convenzionale
parlar dovea dar morte al castellano,
e il conte con l’arcano
linguaggio che feria più del pugnale,
animando imperterrito i seguaci
facevali d’aspetto terribili e pugnaci.
Tosto che il vile gergo il triste effetto
produsse su quegl’animi accecati,
il capo maledetto
di quella spedizione
guardando intorno con circospezione
dal fodero cavando l’arma abbietta,
si getta sul buon Didaco6
rapido qual saetta.
Un rantolo e quel corpo già spossato
dalla vecchiaia cadde a terra esangue,
e pria che il servo amato
avesse dar potuto la sua aita,
versava anch’esso sangue
da una mortal ferita.
Compiuta quella strage,
con la ferocia bruta e belluina,
con gli occhi come brage,
i cinque masnadieri
con la mano assassina
si empivano i bicchieri.
Brindando col cinismo ributtante,
vicino a quei cadaveri ancor caldi,
i miseri spavaldi,
dando un grido esultante
foriero di vittoria,
fra il sangue terminarono
la lieta lor baldoria.
Saziatisi di vino,
muniti di una face,
mentre il paese dorme e tutto tace
sotto un sinistro incubo,
iniziano il cammino
verso gli spalti del fatal maniero,
e quando che nell’alto giunti sono,
muovendo quel barlume di mistero
descrivono nel buio
un segno come un cono.
Tutto era fatto; ma da una casetta
donde il lavoro aveva un lieto fine
povera una vecchietta7,
che si sentiva in cuore mille spine,
presaga di sventura
vegliava quella notte con paura.
Filando accanto al fuoco,
mesta ascoltando l’ulular del vento,
provava a poco a poco,
nel calmo spirto un atro turbamento
che la rendea ribelle,
e presa da una smania inusitata,
andò sull’uscio per veder le stelle
sospinta da una forza inaspettata.
Appena l’occhio stanco fu colpito
dall’oscillante face ancora accesa,
con ton triste e avvilito,
le scarne man mettento8 sui capelli,
disse, la rocca è presa!. .
E chi saranno quelli?!…
Rapida qual balen nella tempesta,
senza por tempo ad altre riflessioni,
messasi un cencio in testa,
mosse quasi tentoni
dalla Bastia9 onde ir al paese
per vie impraticabili e scoscese.
Raggiunti gli abitati,
ch’erano più propinqui alla sua casa,
con colpi reiterati
picchiando in quelle porte,
fece tutta la gente persuasa
che si correa un pericolo di morte.
Fu un attimo. E coloro che destati
Per i primi dall’eroica vecchietta,
uscendo bene armati,
corsero a tutta fretta
per avvertire gli altri paesani
e allor che tutti insieme
occhiarono il segnal di quei marrani,
fecero nn10 grido ostil che ancora freme.
Cessato quel tumulto,
la massa brulicante,
sfidando quel periglio grave e occulto,
diressesi agitante
sotto le mura del feral maniero,
e fatto al castellano
un chiamo con accento lusinghiero
tosto s’accorse che chiamava invano.
Come falange che per guerra muove
Se il patrio solo lo straniero invade,
così messo alle prove
il popol di Sorian da quella clade
eroico e risoluto
marciò su Vignanel compatto e muto.
Giunti fuor del paese a poca strada,
dove un ruscello gorgogliante scende,
prima che l’orda avversa
s’inoltri ancora e tutto quanto invada,
li11 vien scontrata e rapida s’accende
una battaglia d’onde vien dispersa.
Sconfitta quella turba di malnati,
avendo a cuor completa la salvezza,
vecchiaia e giovinezza
formante quell’esercito di prodi
accorti e entusiasmati
tornâro indietro con strateghi modi.
Messo di nuovo il piede sul comune
nido cortrutto12 con sudori e stenti,
guardando sulle brune
torri sfidfanti l’inimico ascoso,
con gesti e fieri accenti
rifecero il momento burrascoso.
A morte! A morte! ripetean tutti,
formando un coro d’una sola voce,
perché spargere lutti
e metter gl’innocenti in sulla croce?
A morte gli assassini!
Morte al conte Nardini!13
E poscia che di mille vituperî
quel nome fu coperto con ragione,
tutti tremendi e austeri
in vera ribellione,
sotto la luce della luna scialba
attesero fin quando spuntò l’alba…
Al sorgere dell’almo dì novello,
cui lo splendor inondava e terra e cose,
il popol che in cuor pose
d’aprir pei miserabili l’avello,
cognito tutto d’un segreto accesso
indomito v’entrò come un ossesso.
Appena penetrato nell’interno,
vedendo uccisi i castellan col servo;
le furie dell’averno
si scatenaron tutte in quel frangente;
e inveendo sul protervo
conte e compagni veementemente,
bramoso di vendetta
diedesi alla caccia a tutta fretta.
Ratto come la Nemesi qualora
vola per compier l’opra di giustizia,
intuendo che propizia
si presentava per punire l’ora;
frugando ansioso ogni angolo remoto
scova alla fine ciò che a tutti è noto.
Trovati i rei furfanti accovacciati
in un cantuccio pieni di spavento,
con modo violento,
dopo averli per bene malmenati,
nel sommo della rocca li conduce
e non badando al lor piangente fiotto,
facendoli mirar l’ultima luce
dal merlo mastio li butta di sotto.
Sinistri tonfi! e poscia un sepolcrale
silenzio salutò il fulgente giorno,m
ed oltre dello scorno
ch’ebbero i pravi fautor del male,
in premio dell’orpello
ebbero indegna morte per suggello.
Volato il tempo come nube ai venti,
dietro di sé lasciando crudi scempi,
veggente d’altri esempî
infami imposti all’uom dai prepotenti;
la rocca di Soriano
esercitante un fascino un po’ arcano;
uditi tanti affanni
dopo cinquecent’anni
è stata trasformata in reclusorio,
e buoni e malfattori
formanti quell’emporio,
oggi stanno lassù col pianto ai cuori